L.R. Johannis

L. R. Johannis

Ritratto di Luigi Rapuzzi Johannis Firma di Luigi Rapuzzi Johannis



   

    Il futurismo della seconda ondata, attorno alla guerra 1915-18, vide nascere più gruppi regionali. Si può parlare di futurismo siciliano, coi centri di Messina (rivista La Balza) e di Catania, fiorentino (da Lacerba a L'Italia futurista), emiliano, torinese, marchigiano (maceratese), napoletano, trentino, e non sarà meno utile ricordarne taluni focolari giuliani e veneti, dove si ebbero circoli futuristi a Trieste, Gorizia, Venezia, con propri periodici di battaglia, come Energie futuriste, Venticinque e L'Aurora.

    Secondo le testimonianze raccolte da Tullio Crali, nel 1918 furono Sofronio Pocarini (fratello di Ervino Pocar) e Furlani a creare la «Joga», che raggruppava i giovani futuristi goriziani, e un anno dopo erano Pocarini e Vucetich a fondare a Gorizia il Movimento Futurista Giuliano, che ebbe per organo la rivista Venticinque, edita da Pocarini e Giorgio Carmelich. Padova, Udine e Trieste ospitarono manifestazioni futuriste, con mostre di Ciargo e Cernigoi, e Gorizia ebbe al Teatro Verdi nel 1923 rappresentazioni di un «Teatro semifuturista», inaugurato da Marinetti, dove insieme a testi di Marinetti, Buzzi, Boccioni, furono messe in scena sintesi dello stesso Pocarini (1), di Bozzi, di Juch. «L'Aurora», a partire dal 1923, fu a Gorizia la rivista del Movimento Futurista Giuliano. Vi collaboravano Giorgio Carmelich, E. Dolfi, R. Maran, G. Carmine, Bruno G. Sanzin, e Jablowski, che fu anche direttore della triestina Energie futuriste (2).

    Nel gennaio 1924 si ebbero serate futuriste a Trieste e a Udine, e conferenze a Capodistria. Nel 1929 espongono a Gorizia Crali e Pocarini, e La Voce di Gorizia pubblica articoli e sintesi teatrali di Crali e G. G. Menon, i quali metteranno in scena Delitto azzurro, dello stesso Menon, e Simultanina di Marinetti, presentata da Michele Leskovic (Escodamé). Questi, ed altri nomi, tra cui Farfa, saranno presenti a letture, circuiti di poesia, convegni, mostre (Fotografica, organizzata a Trieste da Bruno. G. Sanzin, Triveneta Futurista a Padova, ecc.). E non è poco per dimostrare l'assidua partecipazione veneta e giuliana alle attività futuriste.

   Nel maggio 1921 gli studenti italiani furono chiamati a collaborare col futurismo con l'esortazione di un manifesto diffuso dal poeta udinese Michele Lesckovic, che aveva preso per nome di battaglia Escodamé. Questo manifesto — firmato anche da Roberto Clerici e Piero Albrighi — è uno dei primi esempi, nel secolo ventesimo, di contestazione studentesca: e chiede un programma scolastico agile e pratico, l'abolizione degli studi umanistici e dell'insegnante.

    L'appello non passò inavvertito nelle città giuliane e friulane, e gruppuscoli studenteschi futuristi, sia pure incostanti, talora privi di una vera e propria organizzazione, e di breve vita, sono segnalati da Crali a Gorizia e da Sanzin a Trieste.

    Un gruppo di giovanissimi simpatizzanti si unì in velleitaria cellula futurista anche a Udine, dal 1922. Fra i partecipanti di questo sodalizio fattuale, cui non siamo in grado di riconoscere un vero e proprio impegno culturale e associazionistico, erano Luigi Rapuzzi, Paola Rapuzzi e Vittorio Emanuele Nonnino. Possiamo soltanto indicarne, oggi, quello che consideriamo il più significativo rappresentante, in Luigi Rapuzzi Johannis, nato a Sacile (Udine) il 14 maggio 1905, morto a Milano il 21 settembre 1968.

    Come nome d'arte Luigi Rapuzzi scelse Johannis. Glielo aveva suggerito un lontano antenato della Serenissima, capitano di ventura al servizio della repubblica di Venezia, vissuto in un paese della provincia di Udine e che ebbe feudo a Johannis, oggi Ajello del Friuli: un vero, o inventato, Antonio Raputius Johannis.

  Nato da Giovanni, ispettore scolastico, e da Maria Sambucco, insegnante elementare, Luigi fu il primo di quattro figli. Venne lasciato spesso alle cure della nonna paterna, Paolina Benedetti, donna che viene descritta dai familiari come rude, dalle abitudini semplici e dal linguaggio colorito, propensa a isolarsi, ed a isolarlo, in montagna, in una località della Carnia. E fu a Tolmezzo che Luigi prese a contemplare quelle montagne dai colori scuri e dalle forme arrotondate che poi parranno essere ispiratrici di taluni suoi paesaggi, o gli faranno sentire, in analogia con alcuni scrittori giuliani, ma con tutt'altro intendimento, il «richiamo del sasso».

   Il suo interesse per la pittura fu assai precoce. A otto anni già dipingeva il suo primo quadro ad olio, dimostrando una facilità di comporre inconsueta per la sua età, anche favorita da forti capacità imitative. E' un peccato che un album di acquarelli dell’epoca della sua adolescenza — che avrebbe potuto costituire un eloquente documento — sia andato per buona parte distrutto.

   Fece prima studi di matematica, iscrivendosi anche al Politecnico, ma — insofferente della scuola — presto li abbandonò. Frequentò a Venezia l'Accademia di Belle Arti, e fu qui che apprese con profitto ogni elemento della grammatica della pittura.

    Profugo nel tempo di guerra con i propri familiari, e poi tornato a Udine, Rapuzzi Johannis scopre, appena diciassettenne, il futurismo. Stringe amicizia, nel proseguire degli anni, con alcuni dei. maggiori rappresentanti del movimento, tra i quali Luigi Russolo ed Enrico Prampolini. L'avvicinamento suo proprio a questi fra i diversi. personaggi significativi del futurismo non è casuale. Con Russolo ha l'affinità per l'attrazione verso l’«occulto», carico di energie misteriose, subendo il fascino dei dipinti come del suo mondo supersensibile. «Mi sono ricordata di tante cose che Russolo ti diceva» gli scriverà dopo molti anni di silenzio Maria Russolo, nel 1962, da Cerro di Laveno. Mentre come Prampolini sentirà un forte appello verso le forze del cosmo, confermato dai suoi interessi per la fantascienza, che poi verranno riespressi anche in forma letteraria.

    Nei dipinti del periodo futurista — nei quali non si sa fino a che punto, inizialmente, credette, poiché, come venturoso rampollo della Serenissima, ebbe uno sregolato e abbastanza spontaneo senso del camuffamento e della beffa — rimane certamente, da qualunque parte la si guardi — la parte più cospicua e valida dell'opera di Johannis. Il suo esordio più significativo, sulla base di quel che resta noto delle sue prime opere, potrebbe essere Incendio + chiarodiluna (1922) dove le sezioni del dipinto si uniscono e sovrappongono a spicchi con blocchi che potrebbero richiamare a Severini e Dottori, come a Survage e a Delaunay. Oppure Autoritratto + sognidigloria, che è dello stesso anno, o di poco successivo: all’incirca cioè, quando era appena diciassettenne.

    Su Incendio + chiarodiluna rimane un documento interessante. E' una annotazione autografa destinata ad un elenco di quadri: «Quadri vecchi (dal 1922 al 1958) da elencare nel catalogo. Libro 1».

    Dice: «N, 5. Incendio + chiarodiluna Udine 1922. Olio a spatola su tavoletta di abete (in cattive condizioni). Toni rosso cadmio. Lacche rosse scure grigio e bianco sporco. Piccolo rettangolo giallastro nel bordo sinistro. Traspare un pò di polvere d'oro nel semicerchio sulla destra del quadro. Dimensioni: 22 x 28. Il quadro porta sul retro la scritta, appena leggibile in alto, in colore bruno chiaro: Incendio + chiarodiluna. Udine 1922. Luigi Rapuzzi, Jo... futurista.

    Sulla destra in alto esiste una macchia di circa 9 cm. brunastra che ha coperto parte della firma Johannis.

    Scritta da me, nell'agosto 1960 la nota, sul retro ad inchiostro: Incendio + chiarodiluna. Eseguito a Udine nel 1922. Restaurato e verniciato da me stesso, nell'agosto 1960, in Milano. La macchina non è stata tolta. Luigi R. Johannis.

    In alto a sinistra. Catalogo Johannis n. 5 Libro J L.R.J. 1960».


    La nota non si limita a queste informazioni, utili per la datazione e la attribuzione del quadro. E' seguita anche da una «pianata» dove sono indicati, a zone, i colori di ogni spicchio della composizione: r.s. (rosso scuro), b. (bianco) gr. (grigio), n. (nero), R. (Rosso), b.gr. (bianco grigio). Tre tratteggi di proporzioni minime indicano infine le zone (periferiche) restaurate così spiegate con l’aiuto di frecce: «giallastro», «riempito un buco e ritoccato il bianco grigio nel luglio 1960, riverniciato nell'agosto 1960».

    Autoritratto + sognidigloria è un collage, procedimento compositivo che a quest'epoca lo interessa particolarmente: ne ottiene risultati felici anche in La barca di Ulisse, tra il 1924 e il 1926, e poi in «L'amore minerale», 1964, che potrebbe fare da tratto d'unione fra il suo futurismo e la sua «poetica del sasso». Nell’autoritratto, da carte ritagliate color terra rossa e nero, con scritte tipografiche minute, incollate a spirale, emergono richiami-grida all'Amore e alla Bellezza, ai Pennelli e alla Pittura, infine alla Biennale di Venezia e alla Gloria: donde il titolo. La costruzione del quadro ha debiti verso il Carrà di Festa patriottica e verso il Severini di Danza serpentina, entrambi del 1914.

    «Il paralume rosso» (1925-26) è una composizione cubo-futurista, ma le manca il primitivismo e la spontaneità di un Soffici: troppo rifinita, elegante, e quasi accademica; così come Natura dinamica con mandolino, + finestra + paesaggio (1926), seppure più sobrio. Creazione di materia (1927) ha espansioni e colori tutti boccioniani.

    Altri richiami a pittori futuristi si potrebbero ravvisare in La caduta di Lucifero (1922) e in Op. 22 n. 2 di Beethoven (1925), dove potresti sentire la influenza di Russolo, quello di Luce forze della folgore (1912) ad esempio {ma anche in Il tempo passa sulla città, del 1963); in Rivoluzione di ottobre (1924), e qui il nome da fare — per gli spezzettamenti e i frammenti che movimentano il quadro, in un fondo d'incendio — potrebbe essere Severini, se non Tato. Da notare che falce e martello non apparvero nei quadri futuristi, alla stessa epoca, che in quelli dipinti da Vinicio Paladini.

    Gli autoritratti del 1922-23, anche a carbone, potrebbero avere qualcosa in comune con i Nannetti, Nannini, Notte (ne facciamo i nomi a titolo indicativo per rilevare l'affinità delle scelte, anche se è quasi sicuramente da escludere che li abbia conosciuti), e certi dinamismi di nudo sono accostabili a Rougena Zatkova, mentre la compattezza cromatica di spicchi e striscioni può essere considerata un debito verso Balla, che sembra presente anche in Visioni cromatiche di un violino (1925).

    Dove può — negli anni giovanili — essersi fatto questa cultura abbastanza aggiornata, avanguardistica, cui evidentemente tutti i nostri rimandi conducono? Venezia da Udine non è lontana, e non può non essere stato — lo documenta anche l’Autoritratto— il suo polo di attrazione. Qui si fermò, sia pur brevemente, anche all'Accademia, e trasse certamente tutte le cognizioni e gli influssi che può largire un punto d'incontro periodico come quello della Biennale.

    Del 1923 è il collage verniciato e velato ad olio e cera dal titolo Dinamismo di un nudo (Né bella né brutta), inedito, dove il sottotitolo è suggerito da una striscia tipografica utilizzata nel collage. Questa tecnica torna frequentemente in Johannis, che dipinge su carte, o adopera carte e scritte colorate, sulle quali interviene con l'olio, e che poi unifica cospargendo la superficie di lacca.

    Il lavoro Dinamismo di un nudo è così descritto in una annotazione dattiloscritta dell'autore: «Il collage è su tavola, impiallicciata rovere, dimensioni 40 x 31,5 cm. Da me eseguito nell'ottobre 1923 in Udine. Velato con lacche e parti rivestite con foglia d’oro. Nel 1925 fu esposto a Udine in una mostra collettiva organizzata nel nuovo palazzo comunale. Venne acquistato da un mercante d'arte di Udine e da questi venduto ad altro di Venezia. Infine venne in possesso dell'avv. veneziano dott. Danilo Bresolin... Io stesso lo riacquistai nel luglio 1963 in occasione della mia ricerca di opere del periodo futurista che intendo recuperare per organizzare una prossima mostra retrospettiva».

    Anche il dipinto «La rivoluzione di ottobre», attraverso il bozzetto posseduto dal figlio Paolo, può contribuire a documentare l’attività futurista di Johannis. Una nota dello stesso autore dice:

«La rivoluzione di ottobre». Acquarello-tempera verniciato con gomma-lacca e cera. Curriculum: bozzetto del quadro di uguale titolo eseguito nel 1924 a Udine — venduto alla Galleria Marchetti di Udine nel 1925 ed in seguito acquistato dal sig. Bresolin di Venezia. Acquistato dall'Autore nel 1956 dal figlio sig. avv. Danilo Bresolin (legale della Banca Commerciale, Via Settembrini, 27 - Milano). Restaurato dall’Autore nel 1960.

Milano 1962. In fede L.R. Johannis».

 

 

    Alcuni anni fa, scrivendo a proposito del futurista Arnaldo Ginna, pittore e cineasta, mettevo in risalto il carattere «animico» e l’ispirazione «cosmica» di alcuni suoi disegni a carboncino, risalenti agli Anni Dieci. Non è senza sorpresa che ritrovo in Johannis gli stessi temi, trattati con la stessa tecnica, ora con le tremolazioni di Creazione di materia (Serie di impressioni cosmiche, 1929), ora con una più compatta coerenza plastica: e sono Sensualità, Lussuria (Stati d'animo n. 6), Avarizia, La Superbia, Elasticità, e Gli amanti (dove l'attrazione è di forme, non di corpi umani), quasi tutti realizzati tra il 1924 e il 1929. Poiché è assolutamente improbabile che Johannis e Ginna si siano conosciuti (e Ginna, da me interrogato, lo nega decisamente) è più facile che gli «stati d'animo» siano derivati a Johannis tramite Boccioni. Questi disegni appartenevano all'album andato in parte distrutto. Ora sono in gran parte di proprietà del comm. Remo Ciampi di Torino, che fu suo protettore e amico, e che conserva anche il maggior numero delle sue opere futuriste.

    Un altro nome accostabile a quello del friulano è Fortunato Depero. E' forse in questi due casi, più che altrove, che si può parlare, nel futurismo italiano, di una pittura moderna, dinamica, simultanea, che riceve stimoli anche dal folklore. In Johannis è fortemente radicato l’hnumus popolare friulano: e qui potrebbero essere citati, per analogia, oltre che certi dipinti del pittore di Rovereto, anche le parole in libertà di Jannelli (con espressioni dialettali sicule) e i fogli di taccuino di Rosai (come in qualche frammento in Lacerba) dove il fiorentino non rinuncia a usare il vernacolo, anzi l'usa per un maggiore richiamo alla realtà.

    Ed ecco gli interni di La Ziguzaine (1926), con una illuminazione deperiana, e dei ritrovi udinesi (Elsa e Mariuccia al Contarena + Bulie il cariere + ½ autoritratto, 1925) e il ritratto geografico di Fides + Carnia fidelis, (1924). Ama intitolare in friulano i lavori di questo periodo. Donde Il zuc de more (Il giuoco della morra, 1923) — un’opera, forse, non delle più significative, che ora sì conserva al Museo Civico di Udine e che pare ispirarsi ai numeri in libertà di Balla (e analogamente Jannelli ideò nel 1915 una sintesi drammatica: Il giuoco della morra); Toni Bechiar, il sior Maestri e Nando Barbir al Feralut (1924) — che dal dialetto friulano si traduce in Toni il macellaio, il signor maestro e Nando barbiere all’osteria Il Feralut (Piccolo Lampione) —; Bai e balons sul brear (Ballo all'aperto, 1925); I ultims a la Colone (Gli ultimi all'osteria «La Colonna», 1925; Meni il ghjat, Sor Cosimo, Toni Bechiar a l’Aquile Nere, (1926). E' in questi ritrovi che Johannis apprezza sempre di più Tocai e Merlot per i quali — si dice — non ha esitato, talvolta, a svendere i suoi quadri futuristi.

    E sente vicine al suo mondo e al suo temperamento le scene paesane e gli incontri all'osteria, nella dimestichezza con gli umili e nella inclinazione a gusti popolareschi del canto, della bicchierata, e della partita a carte. Un lavoro prende proprio il nome di Zuadors di scaraboch» (Il giuoco delle carte, pittura e collage, 1923, prop. Mansutti, Milano). Cede anche a richiami di humor, quasi di ebbrezza, e di dissacrazione parodistica, come nel Gladiatori (1926), o nel Ritorno del Crociato da Sofonisha, col bi-cane (è l'«antenat» Raputius?), o in un Teatrino. Ma temi trattati e stilemi non sono sempre gli stessi. Per esempio ecco il disegno Rose + mare (1928) con una tavola labirintica a incastri che sarebbero piaciuti a Capogrossi, o che potrebbero essere stati ispirati da Mondrian.

    Nelle scene d’osteria del periodo giovanile — costruite un pò alla maniera di La risata di Boccioni (1911), seppure con minore solidità d'impianto — il mondo tradizionale in chiave paesana si sovrappone bizzarramente al dinamismo futurista. intravedi gli umili coi quali ama intrattenersi nei pubblici ritrovi davanti a un bicchiere: è lì che ha i suoi amici, come altri li troverà tra gli intellettuali e gli insegnanti: «professori» e «maestri».

    I dipinti, oli e acquerelli, sono laccati. | personaggi semplici che li ispirano non assurgono mai al ruolo di protagonisti e non sono al centro del quadro. L'immediatezza essenziale della scena ne risulta vibrante e movimentata.


IL FUTURISMO DI JOHANNIS


    La presa di posizione di Johannis nei conflitti politici dell'epoca mostra come, anche nel caso del friulano, non sia possibile identificare fascismo e futurismo. Johannis, che aveva subìto l'influenza del padre, socialista di vecchio stampo, nel primo dopoguerra, si trovò subito nelle posizioni ideologiche dell'antifascismo, e quando, molto tempo dopo, visse il dramma dell'8 settembre 1943, aderì subito al Movimento di Liberazione Nazionale, tanto da essere arrestato ben due volte. La sua casa fu ripetutamente perquisita e varie opere si dispersero. Corse anche il rischio di andare incontro alla deportazione. Fu partigiano nelle formazioni del Reparto Sud Arzino, Battaglione Attilio.

    Nell'agosto 1946 si occupa, col pittore Anzil, di un concorso di pittura che tratti un soggetto della guerra di resistenza e che dovrà tenersi nell'autunno. Entrambi, Anzil e Johannis, invitano Domenico Cantatore a far parte della giuria. II messaggio, che ho sott'occhio tra altre carte dello scomparso, è scritto su una dichiarazione - salvacondotto della unità partigiana cui appartiene: «Si dichiara che il sig. Rapuzzi Luigi (Athos) risulta partigiano inquadrato nel Reparto Sud Arzino, Battaglione Attilio».

    Delle sue convinzioni politiche internazionaliste e marxiste resta testimonianza, come anticipavamo, anche nei quadri: quelli, per esempio, dedicati alla Rivoluzione d’ottobre, dipinti nel 1924, dove spiccano, con i berretti di operai, falce e martello: né più né meno come avvenne per i quadri di un altro futurista, Vinicio Paladini, col quale già rilevavamo alcune affinità (ma, anche in questo caso, non vi fu un rapporto diretto). Se Johannis, infatti amava ispirarsi ai contadini delle osterie, Paladini si volgeva (ed era il 1922) al Proletario della III Internazionale. Più tardi, allorché ambedue si staccarono dal futurismo, presero a dipingere in una sorta di realismo magico (vedi Il solitario di Johannis, 1929) che sta nell'anticamera della pittura metafisica e del surrealismo. E parvero subire ambedue — seppure con forme e sensibilità diverse — le spiagge, le piazze, e le leggende di De Chirico e Savinio. .

    E' chiaro che tutti i riferimenti che si fanno non sono che, principalmente, per un tentativo di verifica della impronta futurista dei primi dipinti di Johannis. Non è necessario, per estrarre un senso da quanto veniamo esponendo, che egli abbia visto tutti i quadri, qui ricordati, di Boccioni o di Balla, di Severini o di Carrà, di Russolo o di Depero. Ma è significativo che partecipando, come si espresse, di «impulsi futuristi di rottura con l’accademia» — magari in maniera appartata, non ufficiale — sia spesso arrivato, anche con un certo eclettismo, alle stesse conclusioni. Fermo restando che si trattò più di stimoli che di una vera e propria ambizione e convinzione a volersi inserire nel movimento, di cuì non fu sicuramente assiduo aderente. Ma si sa che Marinetti non era contrario a raccogliere nella famiglia futurista coloro che — anche se isolati — manifestavano con le opere di essergli — almeno intimamente — vicini. E fu proprio quanto avvenne in occasione del Padiglione della Biennale 1942: giacché i padiglioni delle mostre futuriste erano sempre aperti generosamente a quelli che venivano considerati compagni di strada.

    In quell'epoca Marinetti offrì a Johannis e firmò con vibrante dedica il suo libro «Guerra, sola igiene del mondo» (la cui prima edizione è del 1915, ma di cui non si è rintracciata la copia, perché smarrita).

    Quanto ai quadri di Johannis, non si può negare che essi abbiano spesso i lampi di Russolo (in La caduta di Lucifero, 1929, e in Vibrazioni cromatiche di un violino», 1925), le scomposizioni cubofuturiste di Soffici (o dei primi Rosai e Conti), i giuochi di luce o la plasticità soda e ricca delle astrazioni di Dottori (in Incendio + chiarodiluna, 1922) le porpore e gli azzurri di Paladini (in Rivoluzione d’ottobre), le spirali e i dinamismi di Balla (in Dinamismo di una serpe acquaiola, 1925, in La Ziguzaine, 1926), il folklorismo pittorico — e l'impulso naif — di Depero, i titoli dei disegni di Boccioni o delle parole in libertà lette nei periodici futuristi, con parole e numeri liberamente disseminati in qualche quadro (Il giuoco della morra, per esempio, o, assai diverso, il carbone con scritte in rosso Fides + Carnia fidelis, la spazio-cosmicità di Prampolini e di Oriani (come in Repulsione cosmica).

    Il suo futurismo, insomma, non può non risultare tendenziale, dichiarato, evidente, e «collegato», sia pure nei limiti di un pittore di provincia. E poi si firma lui stesso baldamente, come facevano molti altri, «pittore futurista» (vedi Tre donne al mare vestite di vento porpora, 1926), o, in vari quadri, «L.R.J. p.f.» come in Autoritratto, 1923, Plasticità di tre nudi, ottobre 1929). Ma soprattutto è futurista là dove la sua pittura è fatta di compenetrazioni, di simultaneità, di sintesi, di movimenti dinamici. Ecco Natura dinamica con mandolino + finestra + paesaggio 1926), Dinamismo di un nudo (1928), Plasticità di tre nudi e Dinamiche di un nudo (1929).

    Di Prampolini ascoltò anche i richiami polimaterici, che tradusse in cartelacche: un suo genere originale, dove collage, olio e lacca sono ingegnosamente accostati e sovrapposti. E' qui che si rivela tutto il mondo, che va scoprendo, della fantascienza, con giganti — quando ci sono —, e qui il richiamo a Prampolini sparisce del tutto — inseriti in misteriosi paesaggi, mescolati ad esseri fantastici e ad animali appartenenti a mondi lontani e inesplorati (come in Isola dei giganti, o in Neanderthalensi).

    Se in alcuni temi cosmico-spaziali è stato prampoliniano, i monoliti fanno invece pensare, ma solo per richiamo ottico, a Magnelli: e questo nome torna anche se contempliamo La barca di Ulisse (1924), un collage che sembra risentire del neoplasticismo: e può essere stato recepito anche attraverso Mondrian.

    Vi sarà in fine, in Johannis, anche una tendenza all’aeropittura, ma non sarà quella documentaria di Tato, o lirico-simbolica di Dottori: piuttosto, episodicamente, quella di Prampolini, per la sua tendenza a interpretare lo spazio cosmico.

   La sua presenza effettiva, e testimoniata da Tullio Crali, nel futurismo, non è comprovata ufficialmente che nel 1942, allorché fece l'Aeroritratto simultaneo dell'aeropittore Crali, esposto alla Biennale di Venezia dello stesso anno. Il quadro nacque — ha scritto Tullio Cralì al Direttore del Museo di Udine, Aldo Rizzi — «in un momento di particolare entusiasmo scaturito dal nostro incontro e conseguentemente da quello con Marinetti». «Dopo di allora — aggiunge Crali — Rapuzzi non ha fatto più cose futuriste, perché la sua vocazione pittorica lo portava verso altre posizioni più tradizionali anche se altrettanto, anzi ancora più, valide perché più in sintonia col suo temperamento».



PER UN RECUPERO DI PRINCIPI ARTISTICI UNIVERSALI


    Nel dicembre 1946, alla Galleria Bergamini di Milano, partecipa ad una mostra collettiva aderendo al Gruppo «Movimento per un’arte classica moderna». Sono tutti pittori veneti: Anzil, «veneto del Friuli, con sangue olandese nelle vene» — come lo presenta nel catalogo Vittorio Marangoni —, veneto del Cadore Fiorenzo Tomea, Dovetta triestino, i friulani Zigaina Canci, Magnano e veneto anche Virgilio Guidi, pur giunto dalla Toscana: «veneto come pittore».

    Come sentono i problemi nuovi della pittura questi artisti, in un momento di tensione e rivoluzione culturale quale fu quello dell'immediato dopoguerra?

    I promotori del movimento si erano scambiati già nella primavera del 1943 i loro punti di vista e fin da allora avrebbero voluto pubblicare un manifesto, le cui basi essenziali sono così condensate: la pittura contemporanea deve diventare classica tenendosi lontana dalle confusioni letterario-filosofiche e dai ritorni anacronistici. Si allude qui a una polemica contro un «barocchismo moderno o pittoricistico», che include influenze di maestri ormai consegnati alla storia dell'arte, come Matisse e Rouault, e contro preminenze filosofiche nella pittura e nella stessa critica d'arte; inoltre a una «libertà dall'epoca — non come uomo, che sarà impossibile — ma come artista: il quale non ha epoche», e ad un «rifiuto della retorica, che non sarà propria che degli artistoidi».

    E' un «classicismo», quello cercato dai pittori veneti, che si potrebbe qualificare (alla Cardarelli) per «metaforico»: non da rigenerare nei modelli superati da secoli, ma da arricchire in una rinnovata corrente culturale che attinga insieme a ciò che è «classico» e a ciò che è inteso per «moderno». E che — viene precisato — abbia per proprio il dovere di «parlare a tutti», di «sentire — come commenta V. Marangoni — i grandi problemi»: farseli, maturarli, dominarli, renderli»; per un'arte che aderisca alla natura ed eviti ogni particolarismo individuale, onde cercare ciò che è universale nel fatto umano e naturale, lungi «dal sentimento, dall’affettivo, dal perturbato».

    Lo schema di un'arte siffatta impone, per i Pittori Veneti, questi punti: forma, cioè invenzione di forme e di espressioni; colore, cioè invenzione del tono e del tessuto pittorico; spazio, cioè ambiente dove vive l'immagine poetica creata; luce, nei «toni-luce indipendenti dalle leggi fisiche emessi idealmente dalle forme create»; contenuto, nella «risultante emotivo-poetica dell’opera (non già racconto e illustrazione, ma pura emozione)». L'opera d'arte, cioè il miracolo creativo, sarà la fusione armonica dei cinque punti enumerati. «La trovata tecnica, in sé, non è sufficiente a creare una nuova pittura». «Con la pittura metafisica Carrà e De Chirico, all'alba del secolo, ripresero contatto con i principi universali dell’arte». «La vera arte figurativa classica è completa sintesi della realtà».

    Quale la posizione del gruppo verso i movimenti passati? lo chiarisce l'ultimo paragrafo del manifesto:

«Convinti che le immagini figurative plastiche create dall’artista debbano essere essenzialmente vitali e sintesi del creato, neghiamo: impressionismo, cubismo, surrealismo, espressionismo, astrattismo, futurismo, neoromanticismo, ecc. pur ammettendo il valore positivo dei singoli «DATI» forniti, ma che come risultante sono slegati o assolutamente insufficienti al raggiungimento dell'opera «completa» e cioè al «miracolo creativo».


    II manifesto non è né tutto chiaro, né tutto nuovo, risente di impulsi libertari e di cautele che rallentano il cammino, di notazioni ermetiche e del peso di un momento storico «che ha in sé tutti i segni di una: successione di civiltà». C'è una vaga aspirazione alla «classicità», però intesa, abbiamo visto, e lo aggiunge anche V. Guidi in un postscritto, come «portata nell’attualità del nostro tempo». Fu un appello che non lasciò insensibili né pittori, né scrittori, né poeti, per un riallacciamento ad un'arte classica «che è poi antimpressionistica, antiromantica, antiframmentaria, importandole solamenete un fatto universale o un particolare che l’universale racchiuda in sé» (V. Marangoni). E i brevi testi dell'opuscolo manifestuale (che sono note critiche, e programmatiche, ma anche versi) svelano un'altra firma: Pier Paolo Pasolini.

    Ha notato G. Curletti che la genericità di certe posizioni del Manifesto fu avvertita dagli stessi firmatari. E d'altronde, negli anni successivi Zigaina e Anzil hanno approfondito il contatto con la realtà umana, impegnandosi in un discorso chiaramente realista; Guidi ha superato dialetticamente la poetica dei valori (luce — spazio — colore) che minacciavano di risolvere parzialmente le successive istanze del suo sentimento; Tomea ha scoperto un suo linguaggio allusivo in chiave semi-simbolistica; Devetta ha un mondo di valori estremamente puri. Purtuttavia, avverte Curletti, «Johannis ha proseguito nella sua ricerca dell'essenziale, della poesia pura ed universale, fedele ancor oggi a quegli ideali che furono all'origine del Manifesto — invito» (Catalogo della Galleria del Maggiolino, Alessandria, 26 aprile 1958).



AVVENTURA AMERICANA E RITORNO


    Mosso da spirito di avventura, Johannis, che negli anni trenta aveva tentato la fortuna in Etiopia, al di fuori della pittura, si recò nel 1947 clandestino in U.S.A. nascondendosi in una nave. Intendeva, a New York, attuare un programma di lavoro che avrebbe potuto valorizzare le sue doti di illustratore nell’allora nascente Science-Fiction, genere in cui si rivelò scrittore versatile e fecondo. Ma fu un periodo abbastanza dispersivo, e quasi del tutto negativo per la sua arte. Quando ritornò in Italia era in pieno disorientamento. I cinque anni americani erano stati abbastanza duri, lo avevano costretto ad affrontare le asperità della vita in un paese del quale non conosceva neppure la lingua, adattandosi ai più diversi e umili mestieri: persino cuoco, restauratore e imbianchino. Per sfamarsi talvolta era costretto ad andare nei ritrovi e fare ritratti a carboncino per cinque dollari. Decorò anche la casa di Frank Costello e dipinse una chiesa di New York, che oggi non esiste più. Riuscì nondimeno a prendere parte a due mostre collettive: una al Greenwich Village (1948-49), e una di pittori italo-americani (1950).

    Rimpatriato nel 1952, Johannis sembra ancora fermo ai punti del Manifesto del 1946, di cui era stato coestensore, e che gli parvero sottoscrivibili anche nel marzo 1955, allorché li utilizzò nella presentazione del catalogo della sua mostra allestita alla Galleria milanese Cairola. Nei nuovi lavori sono però già riconoscibili le connessioni con l'attività di divulgazione scientifica e di fantascienza, che ormai lo occupano costantemente, anche se il suo principale obiettivo resta la pittura.

    II significato della metafisica di Johannis, nota G. Curletti, «sta nello sforzo di liberarsi dalle esperienze accidentali e disordinate, nel tentativo di coordinare, attraverso una idealizzazione, gli elementi unitari ed armonici che ne formano l'essenza». E' viva nel pittore «una esigenza di una costruzione unitaria della realtà, superando contraddizioni e incertezze». Per lui metafisica è «immergersi profondamente nelle cose per costruire con esse un ordine universale», E qui sì torna alle esigenze che nel 1946 lo avevano portato al Manifesto su cui ci siamo più avanti intrattenuti. Ed è detto ancora bene nel Catalogo di Alessandria: «Nei suoi dipinti risuona, accorata, la voce dell'uomo, dell'essere umano in generale,e non di «un» uomo in particolare: quel pianto silenzioso e senza lacrime di chi si vede gettato in un mondo senza fine in cui si deve, da solo, costruire la sua patria». Non c'è malinconia, nei dipinti di Johannis: «ma lo spavento di chi di fronte all'infinito s'annega in questa immensità». E tra le opere esposte sono Circo lunare, rimasto alla Galleria, e Sole azzurro, andato distrutto, Le montagne di Venere, Sole giallo, Lago senza tempo; che non escludono anche dipinti ispirati alla sua terra: Nel Basso Friuli, Il pianoro, o al soggiorno in U.S.A., come Paesaggio del Colorado.

    Il sapore di queste opere è tutto metafisico. Riportato, come viatico, nel catalogo di un’altra personale, tenuta ad Alessandria, questo Sonetto confidenziale del poeta brasiliano Lédo Ivo (3) ne spiega esaurientemente le caratteristiche:

Aspiro al metafisico, bevendo
il fiele delle più umane esperienze.
Tra simboli perplesso, cerco in fondo
al labirinto la luce che inizia.
Tingo il mare di giallo e arresto il pendolo
che ti regola, o Mondo, in quanto Tempo.
Dal paradiso espulse, come arcangeli,
le ore cadono e l'Inferno s'alza.
Si sgomenta la mia perplessità
che vita sia volar su un sogno e morte
l'interrompa ancor prima ch'io mi desti.
E’ dormendo che esisto, preso al circolo
dell'universo colorato, sonno
del tempo, sogno della eternità.



UNO SGUARDO AL PASSATO


    A mezz'agosto dell'anno 1961, Johannis tiene per la prima volta una mostra nella sua provincia, dopo lunghi anni di assenza, ospite della Galleria San Giorgio. Raggio dello Scirocco, a Lignano Pineta.

    Si presenta da solo, in una esposizione di carattere antologico che riassume tutta la propria attività pittorica. Lo scritto con cui illustra le caratteristiche del suo lavoro, si apre in polemica con André Lhote, che sostiene — in arte — l'istinto e nega il ragionamento. Rivendica come giusti i principi formulati nel Manifesto per un'arte classica moderna, in quanto ricerca dell'essenziale e nell'universale. Nota come i colleghi firmatari del Manifesto abbiano proseguito ciascuno su strade diverse. Ammette la crisi in cui si è trovato negli ultimi anni tormentato dall'idea che il suo discorso pittorico non riuscisse più ad adeguarsi alle evoluzioni del suo mondo interiore, trascorrendo vario tempo in faticose ricerche.

    Non ha dubbi che le correnti d'avanguardia attuali siano soltanto riprese di posizioni già superate nei precedenti decenni: e il discorso gli da modo di rifarsi ai concetti già espressi da espressionisti e bauhausiani, da cubisti, dadaisti e surrealisti. Pensa, nondimeno, che le correnti artistiche del secolo non abbiano realizzato tutti gli scopi che sì erano prefissi, e nega che esista un'arte novecentista, per la presenza di più arti novecentiste; nessuna delle quali, peraltro, sterile, in quanto ognuna di esse ha fornito dati validi per un'arte di carattere universale.

    Lo scritto di Johannis è interessante non tanto per queste premesse, in cui riconosce il valore degli astratti Kandinsky, Mondrian, Klee, dei collages di Schwitters e dei reades-made di Duchamp, del «genio proteiforme» di Picasso, cui nel 1930 dedicherà un omaggio, quanto per il sicuro e disinteressato accenno fatto al futurismo, che, a dire il vero, nel 1961 non era ancora, tornato sugli altari, come negli anni successivi è avvenuto. Per cui la sua rivalutazione del futurismo, e di Boccioni, non può suonare sospetta.

    «Il Movimento Futurista — dice Johannis — costituì senz'altro il più importante impulso di rottura con l'accademia e aperse il più vasto campo di concezioni e di espressione per la realizzazione, in ogni settore, di un'arte veramente moderna, basandosi su ben noti principi: velocità, simultaneità degli stati d'animo, trascendenza fisica e dinamismo».

    Lo scritto così continua, fornendo qualche elemento esplicativo anche agli atteggiamenti successivamente assunti dal Rapuzzi Johannis: Il Futurismo aveva in sé tutti i numeri per poter rivoluzionare veramente le artì figurative ma, purtroppo, esso si disperse e si minimizzò sotto l'impulso di fatti contingenti, specialmente di carattere politico (la sottolineatura è nostra). Io stesso che da giovane avevo abbracciato con entusiasmo i principi del Futurismo mi trovai più tardi disperso in una delle varie correnti che da esso si dipartiscono. Oggi ritengo che l'esperimento futurista non sia stato sufficientemente approfondito in modo conclusivo.

    Se è vero che l’arte deve identificarsi con l'evoluzione storica di un secolo, quella del nostro secolo non potrà essere altro che un'arte dinamica. Noi oggi parliamo di Era atomica, di velocità supersoniche, di conquiste spaziali; quale, se non un'arte dinamica potrebbe meglio rappresentare questa nostra epoca? Il dinamismo del Vecchio Futurismo ci appare oggi una ben misera cosa di fronte alle conquiste delle nostre tecniche e forse molti fra noi, osservando anche un'ottima composizione d'arte classica, sentono che essa non può assolutamente adeguarsi alla nostra epoca. Lo stesso Futurismo pertanto, per ciò che possiede di ancora vivo e vitale, dovrebbe essere riesaminato su basi moderne. Ed è questo il punto cui, mi hanno condotto le mie ultime ricerche. Boccioni scriveva che ogni oggetto ha una sua trascendenza fisica per la quale tende verso l'infinito secondo le sue caratteristiche linea-forza concepibili soltanto dalla nostra intuizione. Egli diceva: «noi dobbiamo appunto disegnare queste linee-forza. Esse vanno interpretate sulla tela, come i principi e i prolungamenti dei ritmi che gli oggetti imprimono alla nostra sensibilità...».

    A mio parere il primo ed il secondo Futurismo non hanno saputo realizzare questo principio, oggi più che mai «attuale» e Boccioni, purtroppo, fu stroncato dalla morte prima di poterlo sufficientemente approfondire.

    Taluno forse riterrà che il proporsi di rianalizzare vecchie posizioni non risolte rappresenti un fatto involutivo. Io ritengo piuttosto che esso sia un atteggiamento chiaro e leale, tanto più che si tratta di problemi ancora vivi e suscettibili di sviluppo. Ben diverso è l'atteggiamento di quanti si sforzano di mantenere in vita degli aspetti secondari e deteriori dei vecchi movimenti d'avanguardia, oggi morti da un pezzo».

    In una postilla autografa alla documentazione raccolta sulla mostra a Lignano, Johannis annota il 26 agosto 1961:

«In questa personale ho esposto, su suggerimento del prof. Carlo Belloli, le seguenti opere del periodo futurista, da me recuperate (a Udine e provincia):

1. Baj e balòns sul breàr (Udine, 1923).

2. Autoritratto + sognidigloria (Udine, 1922).

3. Scoppio di collera (Udine 1923-24).

4, La barca di Ulisse (Udine, 1925).

5. Vele sul Mar Rosso (Udine, 1925).

6. Composizione in rosso (Udine, 1929).

7. Il zùc de more (Udine, 1923).

8. I tetti della città (Udine, 1924-25).

Il n. 7 è stato acquistato dal Museo Civico di Udine.


DUE DISTINTE ESPERIENZE


    Nel 1963 il pittore si ripresenta con una mostra alla Galleria Montenapoleone di Milano: «Johannis ieri oggi». E' un'occasione per collegare i due momenti dell'arte di Johannis: quello futurista e quello metafisico. V'è in entrambi un ideale di ordine e di costruzione che non ne fa due fasi distinte ed estranee. C'è un senso cosmico, nei dipinti del secondo periodo, che si capisce meglio guardando anche l'evoluzione di un Prampolini e che si giustifica con il periodo futurista, quello dell’aeropittura, cui Johannis non partecipò che marginalmente, ma che non è in lui assente: basti vedere Caduta in vite del 1962 che potrebbe ricordare il già menzionato Linee forze della folgore di Russolo, come certe aeropitture di Crali. L'evoluzione, purtuttavia, lo ha portato a un linguaggio più aderente alla realtà, che diventa fantarealtà.

    Il compito di presentare le pitture futuriste, nel catalogo a due voci (una delle quali è di Gino Traversi) spetta a Carlo Belloni, poeta visivo e storico del futurismo. Colpisce il Belloli, e giustamente, l’Autoritratto + sognidigloria del 1922, un collage laccato su tavola, vicino, ma non susseguente, all’Autoritratto simultaneo di G. Prampolini del 1923, e chiaramente debitore a Festa patriottica di Carrà.

    «Nell'opera — avverte il Belloli — la giustapposizione ritmica dei piani colorati è tradotta in zone di carte ritagliate ad angolo retto e incollate a direzioni spiraliche compenetrate, di valore totalmenete ottico e di progressiva appercezione psicologica».

    Belloli valuta positivamente anche i disegni a carboncino del 1923-29, dove il pittore studia le possibilità inoggettive di forme elementari in rapporto alle loro attitudini a movimenti di attirazione-repulsione sulla superficie. E rileva, proprio da queste opere, la autonomia espressiva del Johannis «dal simultaneismo sintetico di un Severini, dal simbolismo musicalista e movimentista di un Russolo, dal meccanismo orfico di un Depero, o dal metacostruttivismo di un Prampolini»: artisti con cui ebbe contratti in occasione delle Biennali veneziane, coltivando. anche — come si è detto — l'amicizia con Depero e Russolo.

    «Nel dinamismo cromoformale perseguito da Johannis — osserva ancora Belloli — la ricerca della componente luminosa in funzione strutturale lo condurrà ad anticipare certi aspetti di plasticità totale solo oggi pienamente attuali. La progressione della luce nello sviluppo di forme ritmico-circolari, suggerendo rapporti di profondità totalmente plastica, instaura una inedita suggestione visuale».

    La rivalutazione del futurismo nel secondo dopoguerra si è verificata, a parte qualche isolato tentativo di revisione critica e di documentazione, nel corso degli Anni Sessanta. A quest'epoca Johannis aveva già preso a raccogliere vecchi dipinti degli Anni Venti, alcuni aveva restaurati e venduti con dichiarazioni sulle date di realizzazione, come esplicato nel primo paragrafo. Elenchi di acquarelli e dipinti dell’epoca futurista sono stati ritrovati dal figlio Rapuzzi, ora residente a Cividale del Friuli, tra vecchie carte.

    Un anno dopo la mostra di via Montenapoleone (1964) moriva Palmiro Togliatti. Johannis, uomo isolato, che non aveva mai finalizzato la propria arte, se non in Rivoluzione d’ottobre, realizzato quaranta anni aventi, gli dedicò un collage, rimasto incompiuto, nelle mani del figlio Paolo. Morte di Togliatti non è che un legame di più che egli ha tentato di stringere, in senso pittorico e civile, col passato.



FANTASCIENZA E PITTURA


    Passato dal futurismo al metafisico, ecco ora emergere nelle pitture di Johannis una tendenza a interessi speculativi in ordine ai problemi sulla genesi dell'uomo, sulla preistoria e sull'origine della terra. Pensa alla relatività del tempo e del tutto, riflette sulle civiltà e crede nel Diluvio Universale e nell'Atlantide. Intanto si vanno accentuando nel suo carattere, anche in maniera enigmatica e dispersiva, mai banale, atteggiamenti di protesta. Il suo nihilismo lo porta a credere più nelle pietre che negli uomini. Cerca fossili e colleziona selci. Viaggia — è quasi un pellegrinaggio — a Stonehenge- Wiltshine, per vederne le colonne preistoriche, quasi una sostituzione tendenziale della presenza dell'uomo. Ateo, crede però a una mente di sintesi cosmica in cui si organizzi tutto ciò che appartiene alla vita dell'universo. V'è in Johannis: un'angoscia di non poter dire, un dissolvimento della pittura in forma astratta, geometrica, simbolica, come tentativo di evasione, come sforzo di annullare le cose per attenersi alle sensazioni pure.

    Muri bianchi e levigati, o grigi e scabrosi, in una continua disumanizzazione della materia cristallizzata in forme impassibili, lontane, fantarcheologiche, perduta nella irrealtà del ricordo. Mondo magico fatto di silenzio, temperato nel volume dalla luce. Mistero dove la voce umana è assente. Quadrivi silenziosi, aperti su uno spazio senza fine. «Ogni voce si è mutata in pietra». Forme realistiche, ma di una realtà che nasce dal sogno e che diventa surrealtà; o astratta come in Noi nel tempo: ossia presenze spazio-temporali (1966) in cui la notte cosmica è attraversata da rapide frecce di luce.

    I quadri dell'ultimo periodo — quello dei misteriosi quadrivi, da incubo, per un viaggio definito fuori della terra — sono ormai lontanissimi dalla esperienza degli Anni Venti, come perduta nell'abisso della memoria e delle speranze rimosse. Non vede che i deserti della creazione, i paesaggi della coscienza, le pietre misteriosamente architettate di Stonehenge. Si commuove davanti ai relitti della protostoria, ai pennacchi delle montagne ed ai frammenti di rocce.

    «Amo le pietre perché penso alle mani che le hanno sfiorate; a quelle che al riparo di esse sono vissute. Per me l'eco delle loro voci perdute risuona fra gli antichi muri in lieve, vasto sussurro: come la voce ampia del vano nei piani aperti: come il muto e pur sensibile ansito del tempo attraverso i nostri cuori. Amo le vecchie case e le antiche muraglie e non posso eliminare dalle mie tele la terza dimensione: lo spazio. I miei paesaggi sono pace e silenzio; luce serena e ombre ferme».

    Gli interessi per la fantascienza sono strettamente pertinenti con la pittura degli ultimi anni della sua vita, e lo fanno qualificare per metafisico e surrealista: ad esempio nel catalogo per la mostra allo Studio 65 di Bruxelles, la quale si caratterizza come «una testimonianza italiana dell'attualità del surrealismo nell'arte contemporanea» (12-30 giugno 1967).

    «Johannis è un matematico — dice ora di lui Luigi Bonifacio — che ha trasferito nella pittura le sue ricerche astrofisiche, e mineralogiche e archeologiche. Sempre meticoloso e completo nella ricerca dei suoi colori coloriti, dipinge come risolve le sue equazioni. Crede nell'esistenza di altri pianeti e nella vita di altri mondi. Crede ai Giganti immensi e lenti che ritrova nel corso delle sue lunghe e appassionate ricerche e per essi ha dipinto ville, case, muraglie: sui dorsi delle montagne e delle isole mobili illuminate da altri astri solari. Ha pubblicato romanzi di fantascienza tradotti in più lingue».

    É un cammino mentale che percorre dopo aver riflettuto, immaginato e scritto per la Science-Fiction. Qui, testimonia Ugo Malaguti, nella rivista «Nova SF» (n. 12, Libra Editrice, Bologna, 1970), L. Rapuzzi Johannis occupa un posto particolare e come scrittore e come pittore: «e forse è stato l'unico, negli anni tra il ’50 e il '60, a possedere quello spirito sincero, quella comprensione, quella freschezza che in America hanno dato vita all'intero movimento fantascientifico».

    I suoi scritti principali, in questa materia, sono i romanzi Quando ero aborigeno, C'era una volta un pianeta, Il satellite perduto, gli articoli e i racconti apparsi, anche con pseudonimi, su «Urania», «Galassia» di Udine (da lui stesso diretta], «Cosmo», «Fénarete»; inoltre il luogo saggio L’Homo sapiens è giunto dallo spazio, diviso in quattro capitoli, che «Nova SF» riproduce dal n. 12 al n. 15 (1970-71), dove studia le origini dell'uomo, ipotizza che «siamo nati sulle stelle», in un tentativo di lucido trattamento dei misteri più inesplicabili del passato umano, gettando le basi di una vera e propria «archeologia spaziale», in una esplorazione affascinante di mondi più antichi, da noi lontanissimi: rivelandosi scrittore di Science-Fiction archeologico e studioso suggestivo di antiche leggende e civiltà. La sua ricerca — dice Malaguti commentando il quarto capitolo, I signori della fiamma — «si ammanta di sfumature di sogno, che si uniscono al sospetto (o al ricordo) di una lontana venuta di esseri superiori su questa nostra terra, il pianeta che è il terzo dal sole ...» (4).



TORRI, MURI A QUADRIVI


    La pittura degli ultimi anni si distingue per soggetti di torri, muri e quadrivi: Vi si possono leggere, freudianamente, misteriose interrogazioni che nascono: dalla coscienza per volgersi al cosmo. | dipinti si caratterizzano anche per la scelta dei colori, come un Incendio giallo-verde del 1960. Sono colori non aggressivi, ma stemperati, come trattenuti, addirittura avari: non gialli, ma giallastri, non verdi, ma verdastri, non rossi ma porpora od ocra e bruni, e grigi, e neri, attraversati da cadmio. La apparente povertà cromatica non è affatto casuale, anzi, ci sembra di interpretare, non è estranea all'attenzione sempre più ferma che Johannis porta verso l'archeologia e la preistoria. Vi si potrebbe riconoscere una sorta di coerenza, se i colori da lui scelti non fossero già presenti in molte opere dell’epoca futurista. La pittura dei cavernicoli — infatti — usava quattro colori: bianco, nero (fatto col carbone), rosso e giallo.

    Si sente, nei temi affrontati, il peso di un mondo minacciato, che diventa post-apocalittico o post-atomico (Dopo l’Apocalisse, Post-atomica, tra il 1963 ed 1966), anche in Morte delle aringhe (1966), fra enigmatici tronchi di colonna rocciosa, o scanalata. Le vie divergono, le linee si ricongiungono, come in formule matematiche. Le muraglie fanno da sponda in un paesaggio non si sa da chi abitato. Si cammina senza uscita: verso che cosa? Dopo quale catastrofe? E' un «ordine» prima della fine o dopo la fine? Le sculture torreggianti, costituite di forme fondamentali, si direbbero — e prendo per analogia la espressione da un pàsso di Entropia e arte di Rudolf Arnheim {Einaudi, 1974) — «non costruite per le età, ma piuttosto contro le età».

    Ora la cartalacca Post-atomica (1966) è su cielo blu, ora il sole di Quadrivio (1965) illumina soltanto la strada, mentre all'orizzonte il cielo è grigio, ora lo sperone del muro punta sullo Stagno (1967), ora la Marina è una via d'acqua (1966 e 1967) ora non ci sono che Pietre (1966), oppure esse diventano pennacchi e torri (Leggenda n. 1, 1966). Infine c'è la serie di Stonehenge (1966), la mèta del suo viaggio emblematico, affascinato dalla storia, dall'eternità e dalla diversità della pietra: pietre nere, bianco-nere (Cartalacca n. 7 e n. 9), color mattone (L'isola Cartalacca n. 8, 1966), rosa (Cartalacca n. 6, 1965), bianche (Impressione Stonehenge, 1966).

    Stonehenge — mitico incontro con la preistoria —, è un antico monumento nella. zona di Salisburg (Wiltshire), Gran Bretagna meridionale. Consiste in un gruppo di enormi pietre, rozzamente tagliate. Nessuno sa esattamente da chi furono collocate. Risalenti ad almeno 3.500 anni fà, il loro significato, è da credere, è religioso, in quanto connesso col culto del sole, o astronomico. Si è trovato, infatti, che il monumento può essere servito come preciso calendario astronomico, capace di predire le stagioni e le eclissi del sole e della luna. Pietre simili sono state trovate nel Galles occidentale. Si ignora come potessero essere trasportate e le leggende: parlano di giganti possenti. Quelli che Johannis mostra in qualche dipinto (I nomadi, 1943, Neanderthalensi 1945), o in disegni illustrativi destinati a taluni dei suoi racconti di fantascienza?

    Nei quadrivi è la sua idea di «sintetizzare le forme uniche della continuità nello spazio»; e insieme il mistero di un viaggio definitivo, da incubo, per un itinerario estremo, fuori della terra.

    I suoi quadri di questo periodo sembrano nati al di fuori della coscienza e del tempo, e pertanto possono essere interpretati in senso surrealista. Uno scritto di Johannis su Fenareto (n. 2-3, Milano, 1966) può offrirci chiavi per capire in quale area si muova il suo pensiero, quasi guidato ormai da un «io segreto», oltre la coscienza. «Nel campo onirico la percezione del tempo è diversa da quella relativa allo stato normale di veglia». «L'io segreto ha possibilità molto più vaste di quanto l'io cosciente possa immaginare».

    L'ultima personale di Johannis, organizzata dal nipote Roberto Sermann, è avvenuta a Messina nel 1968, poco prima della morte, e ripropone i temi già svolti nella mostra del 1963 con l'aggiunta delle cartelacche della serie Stonehenge, post-atomiche, ecc.


CONCLUSIONE


    Quali le conclusioni da trarre da questo primo approccio con la pittura di Johannis? Il gruppo di opere degli anni fra le due guerre autorizza a prendere in considerazione il suo momento futurista, anche se non fu convinto e ufficializzato. O che ci si voglia riferire alla sua effettiva partecipazione alla Biennale 1942, tra futuristi, o che lo si faccia per riguardo a quadri dipinti negli Anni Venti, sui quali può darsi che inizialmente non abbia neppure molto creduto, e magari anche su opere composte almeno in parte dietro la sollecitazione suscitata in lui dalla visione dei maestri (e sono, questi, alcuni punti che ancora restano in parte da chiarire). Ma rimane il fatto della validità di molte sue opere futuriste, anche se non comprovano una sincerità costante di adesione e indicano un certo eclettismo di ispirazione, che lo fa andare da una tendenza ad un’altra, come peraltro abbiamo già precedentemente illustrato.

    Taluni quadri enunciano una ironia e un folklorismo provinciale che certamente hanno contribuito a farli credere, forse anche al suo stesso autore, minori. «C'è nella sua opera del buono e del meno buono» come confermano ancora oggi taluni suoi estimatori; tra cui Vittorio Marangoni. Incauta politica, anche se non certamente determinante, fu la sua, in epoca littoria, di intitolarli in friulano, quando i «fogli d'ordine» e le disposizioni del Ministero della Cultura Popolare raccomandavano ai giornali di «non occuparsi di vernacolo». Ma al di là di tutto questo c'è un fondo di qualità e di scioltezza, di sensibilità e di essenzialità che, seppure non sempre uguali, mettono in evidenza una natura d’artista, che non può non essere rivalutata. E la rivalutazione di Johannis va soprattutto condotta in riferimento alle opere futuriste,

    Messo dietro le spalle il futurismo, come è avvenuto anche per molti altri pittori (Carrà, Conti), Johannis si è trovato di fronte a un'altra esperienza che ha tracciato un solco anche profondo col suo passato — e che forse è quella sua più genuina, «più in sintonia col suo temperamento», come ha detto Crali —. I viaggi, e lo spirito d'avventura che lo spingeva lontano dalla terra delle sue radici, accentuavano ancor più questo trapasso.

    E' questa nuova esperienza che pesa sulla sua pittura e ce lo fa apparire quasi diverso dallo Johannis di ieri. Ma c'è tuttavia un comune denominatore che resta in lui: ed è quel futuro della pittura che si è trasformato in «futuro» della vita. Quel viaggio interplanetario che è stato annunciato da Mafarka il futurista come dal supersensibilismo di Luigi Russolo: e che lo spinge ora a guardare nei «deserti di Dio», nelle pietre di Stonehenge, nei quadrivi dell'infinito. Non è forse qui il suo vero punto d’arrivo, e il futurismo, allora, non fu che una attrazione delimitata nel tempo, uno dei motivi che contrassegnarono il suo eclettismo?

    Resta il fatto che la sua opera denuncia, nelle sue fasi così distinte, quasi spaccate l'una dall'altra, un pittore con le carte in regola, pur se talora incostante e trascurato, però conscio del proprio linguaggio e tutt'altro che estraneo alle ricerche di avanguardia, poi spogliate di ogni preoccupazione terrestre per una esplorazione cosmica al di fuori dell’effimero della realtà quotidiana.


Mario Verdone


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